di Vincenzo Masini

Il tema del politicamente corretto è la questione in cui più sottilmente si manifesta l’ipocrisia della politica.

L’espressione “politicamente corretto”, nata negli anni ’70, si incentrava sul tipo di linguaggio da utilizzare per garantire il rispetto verso persone appartenenti a minoranze, a differenti culture, con situazioni di disabilità, di esclusione sociale o di maggiore debolezza nel potere contrattuale e nell’immagine.

Il linguaggio voleva rappresentare un atteggiamento di accettazione e di inclusione da parte dei “politicamente corretti” per sancire una alleanza politica con le diverse minoranze. La teoria di inclusione sociale che tale processo sottintende è che l’insieme delle minoranze diventa politicamente una maggioranza anche se a partecipare alle diverse minoranze è lo stesso individuo. Egli infatti può essere contemporaneamente ambientalista, vegetariano, omosessuale, malato, disabile, appartenente ad una minoranza etnica, ad una religione non ufficiale, ecc. [1]

L’accettazione della minoranza è però solo formale e linguistica poiché non riesce ad essere autenticamente relazionale e infatti si esprime sul piano dei diritti civili, delle carte dei diritti, delle leggi e delle forme di interazione sociale condivise e normate.

La minoranza si attende però un altro livello di accettazione relazionale poiché vorrebbe che la maggioranza si “facesse simile” ovvero conformasse lo stile di vita al messaggio, anche di sofferenza, di cui la minoranza è portatrice. L’attesa ingenua della minoranza è quella di poter essere maggioranza per ottenere un’identità collettiva che sazi il bisogno di riconoscimento.

Invece si trova di fronte solo al cambiamento del linguaggio.

Il linguaggio invece ha solo determinato nella minoranza un’attesa di attenzione e di cura che è di gran lunga superiore alle possibilità relazionali, sociali ed economiche dei sistemi e degli stili di vita. Le aspettative deluse nella vita quotidiana possono dunque trasformarsi in rivendicazioni sociali anche molto forti.

Serge Moscovici[2] elabora la fondamentale teoria che l’influenza della minoranza differisce da quella della maggioranza perché la prima può aver luogo solo in condizioni di antagonismo mentre la seconda può realizzarsi anche in un contesto collaborativo. La maggioranza normativa può essere influenzata solo mediante l’enunciazione di posizioni politiche chiare capaci di attirare interesse dall’esterno.

Il problema vero è che l’interesse suscitato all’esterno del collettivo della minoranza è un interesse ipocrita, giacché esprime una posizione a livello linguistico ma un’altra a livello relazionale. In pratica un costante doppio legame, nel senso proposto da Gregory Bateson e di cui discuteremo più avanti.

Il latore del doppio legame è anch’egli prigioniero del medesimo doppio legame strutturato nel suo egocentrismo e non riesce nemmeno a rendersi conto del proprio atteggiamento ipocrita.

Egli bada costantemente ad usare un linguaggio che non faccia sentire nessuno escluso, sminuito o svalutato, evita di riferire argomentazioni che si riferiscono ad un gruppo demografico (o a qualunque minoranza), modifica per compiacenza o per ideologia espressioni verbali che possono farlo apparire insensibile ai diritti della minoranza (dirà ministra per rispetto al movimento femminile nato come minoranza), non userà espressioni come “handicappato” o “ritardato” sostituendole con disabile, non si esprimerà con affermazioni religiose o simboli che possono offendere altre religioni, adopererà termini neutri per non perdere la faccia sbagliando interpretazioni di gender (“esci con qualcuno?” al posto di “hai la ragazza?”), non userà espressioni ritenute squalificanti per alcune professioni (becchino diventa operatore cimiteriale, spazzino diventa operatore ecologico, bidello diventa operatore scolastico…), si sforzerà di non apparire scorretto con barzellette che riguardano razza, classe, sessualità, età, genere, o abilità fisica e, ovviamente, cercherà sempre di parlare bene di tutte le minoranze.

Se questi atteggiamenti fossero solo indice di buona educazione non avremmo i giganteschi problemi psicologici e relazionali che il loro uso ha prodotto.

In primo luogo limitando implicitamente la libertà di pensiero, ovvero la riflessione personale ( la Ragione) su temi come immigrazione, sicurezza, differenze di civiltà, di origine geografica e razziale, omosessualità, gender mainstreaming, domande esistenziali e fedi religiose inducendo la sensazione che si stiano affrontando dei tabù per il ciclo attuale della globalizzazione che deve rendere tutto indifferenziato.

La dittatura del relativismo che sta alle spalle del politicamente corretto mira ad un progetto di riscrittura della mentalità e della società in chiave ipocrita e burocratica per neutralizzare sia i riferimenti ideali sia la relazionalità autentica.

In secondo luogo illudendo le minoranze di una loro piena accettazione attraverso l’opposizione ad una impalpabile maggioranza che le emarginerebbe perché razzista. omofoba, rozza, fascista, oscurantista e oppressiva. Quando il processo di opposizione è avviato esso non ha più fine perché ciascuna minoranza dovrà fare proselitismo per essere accettata dalla maggioranza e diventare essa stessa maggioranza. Il processo è dunque doppiamente ipocrita: i sostenitori dei diritti delle minoranze istigano al linguaggio politicamente corretto ma non modificano nulla del loro stile di vita e di relazione con le minoranze attribuendo a chiunque ponga resistenze al suo linguaggio politicamente corretto la responsabilità della non accettazione delle minoranze e, contemporaneamente, lottando per l’affermazione formale dei diritti delle minoranze. Pur sapendo che tali diritti saranno negati fattivamente dal potere burocratico insensibile alle relazioni e incapace di individuare soluzione pratiche e concrete. I critici del politicamente corretto sono costretti a diventare minoranza nel relativismo universale e, ipocritamente, affermare essi stessi il diritto ad essere accettati anche e solo come forme folkloristiche appartenenti al passato di cui hanno nostalgia.

[1] Questa visione della teoria dell’insieme delle minoranze nasce all’epoca della contestazione sessantottesca e, pur non essendo più proposta attualmente in questi termini trova riferimenti classici in Gilbert Simondon, recentemente riscoperto dopo aver esercitato una certa influenza su Gilles Deleuze, che discute sulle diverse individuazioni di gruppo come plurime fasi di sviluppo del singolo io che, combinandosi con altri individui delle diverse minoranze, esprime nel collettivo il nucleo di energia potenziale evolutiva pre-individuale. Recentemente Paolo Virno (Virno P., Grammatica della moltitudine, Rubettino, 2001, Catanzaro) riprende le tesi di Simondon sull’essere umano come realtà in parte preindividuale e in parte realtà individuata. Il collegamento tra queste due realtà viene proposto durante la fase della terza individuazione, attraverso il collettivo e la sua opposizione di minoranza alla maggioranza.

[2] Serge Moscovici, (1981), Psicologia delle minoranze attive, Bollati Boringhieri, Milano, (traduzione di Social Influence e social changes, Academic Press, 1976)