Dal punto di vista evolutivo il concetto  di paternità è una costruzione culturale della specie umana.

La scoperta della paternità ebbe luogo quando gli esseri umani scoprirono il legame tra rapporto sessuale e procreazione. Tale rapporto non è infatti di evidenza immediata. Il concepimento  non è assolutamente osservabile, al contrario del parto, che è del tutto manifesto e visibile. Il lungo lasso di tempo, poi, che intercorre fra il primo ed il secondo non contribuisce certo ad evidenziare il loro legame, ma rende, al contrario, ancora più difficile ipotizzare una loro qualsiasi relazione. Per millenni, quindi, gli esseri umani ignorarono che era l’uomo a fecondare la donna, la quale sembrava dunque essere l’unica detentrice della capacità di procreare. Se, quindi, l’uomo era indispensabile nel provvedere al nutrimento ed alla difesa del gruppo, era tuttavia la donna che, creando nuovi individui, lo incrementava e lo reintegrava; e si conquistava in tal modo un ruolo di primaria, indiscussa importanza in quanto la sua funzione veniva percepita come fondamentale.

Tale situazione si protrasse molto probabilmente per tutto il paleolitico, come le famose “veneri steatopigie” secondo alcuni studiosi sembrano dimostrare[1].

Con l’avvento del neolitico nacquero l’agricoltura e l’allevamento e, a seguito di ciò, la scoperta della funzione procreativa del rapporto sessuale fra maschio e femmina: si osservò che le femmine degli animali non figliavano più se le si tenevano separate dai maschi o se i maschi venivano a mancare perché macellati in quanto inutili alla riproduzione. Ciò che valeva per gli animali, doveva valere anche per l’uomo.

Il passaggio tra attaccamento e affettività, ovvero quel processo attribuito alla Eva Africana  e cioè alla donna che, per prima, scelse di guardare con amore il figlio anche dopo la fine dell’allattamento è determinante per lo sviluppo della coscienza poiché il cucciolo diventa il suo specchio riflessivo con conseguente superamento della soglia neuronale 6, ovvero la Soglia della coscienza. Dopo quel passaggio evolutivo si generò il processo della patrilinearità che determinò l’emergere dei modelli familiari tuttora in vigore, con esclusività nella coppia dell’atto sessuale, con la nascita degli archetipi della verginità e della primogenitura (che garantisce la certezza della paternità nel concepimento con una femmina vergine), finalizzati alla trasmissione dell’eredità paterna del nome e delle ricchezze alla sua discendenza certa.

 

Monoandria, monogamia e paternità

In natura non compare la figura del padre. Compare un maschio che collabora con la femmina nell’allevamento della prole ed è attivo quando c’è monandria, ovvero quando le femmine hanno un solo partner. Ciò accade nella maggior parte degli uccelli, dove vige la monandria e la monogamia, mentre nei mammiferi tale ruolo è raro, a eccezione di diversi carnivori, come la volpe o la donnola, e di pochi erbivori, come il castoro, il topo muschiato e l’arvicola delle praterie. La monogamia è propria delle specie in cui la cooperazione tra genitori è necessaria per assicurare la sopravvivenza della prole. La maggior parte degli uccelli è monogama durante la stagione riproduttiva, perché in genere i piccoli sono inetti e necessitano di cibo, calore e protezione, cui possono provvedere tanto la madre quanto il padre. Diversa è la situazione nei mammiferi: solo la femmina produce il latte necessario al nutrimento dei piccoli. In molti casi i maschi possono contribuire ben poco alla sopravvivenza della prole, quindi è per loro più vantaggioso fecondare il più alto numero di femmine possibile. Fanno eccezione molti canidi, come i lupi e le volpi, i cui maschi procurano le prede per la femmina e i piccoli, difendono il territorio e, durante lo svezzamento, rigurgitano il cibo per la prole.

La poligamia non prevede, laddove non sia regolata da leggi, che il padre debba prestare cure parentali, perché solo in questo modo può dedicare tempo ed energia per competere per nuovi partner e per risorse fondamentali, quali il cibo e l’habitat ottimale.

 

La paternità nei mammiferi umani

I mammiferi hanno evoluto il rapporto con la madre ma esiste una figura maschile che vigila, con continuità e responsabilità sul bambino (in molte culture è lo zio materno)  ed è conseguenza della specializzazione dei compiti tra maschile e femminile in ragione della prematurità del cucciolo umano e della specializzazione funzionale del corpo femminile e di quello maschile.

Nell’evoluzione la gravidanza è divenuta sempre più complessa, i figli nascono prematuri (un bambino assume la posizione eretta in un anno, un puledro in un’ora!) e vanno difesi ed accuditi per lungo tempo. Ciò rende la femmina vulnerabile e bisognosa di difesa da parte del maschio, nel quale progressivamente si forma l’immagine mentale del figlio e delle sue necessità.

L’evoluzione ha reso più forte l’organizzazione sociale centrata sulla monogamia e sulla mascolinità paterna rispetto alla poligamia ed alla assenza del padre: nella selezione naturale tra maschi primitivi e maschi paterni ha vinto la seconda tipologia perché i figli hanno avuto maggiori possibilità di sopravvivere e di avere, a loro volta, discendenza.

Fondamentali attributi mentali della paternità furono dunque il riconoscimento del figlio come proprio, la protezione, la tensione al miglioramento (i padri vogliono che i figli siano migliori di loro perché così c’ maggior probabilità di sopravvivenza del genoma), il trasferimento delle informazioni ricevute dagli antenati (i penati[2]).

 

L’assenza di paternità

La rivoluzione sessuale del dopoguerra non mette in discussione la monogamia ma la rende molto più soft e permeabile concependo la possibilità che gli individui, maschi o femmine, possano accoppiarsi con più partner nel corso della vita. Ciò non induce nessuna forma di poligamia tantomeno minori cure parentali ma incentra il legame di coppia sul puro godimento sessuale.

In funzione di tale godimento viene dedicato tempo ed energia per la ricerca di partner, per la cura fisica ed estetica, per l’immagine e per l’affermazione della propria identità.

Ambedue i sessi sono coinvolti in tale processo all’interno del quale la polarizzazione del potere ritorna alla femmina giacché essa è l’arbitro della sessualità: il soggetto che accetta o rifiuta il rapporto sessuale.

Il grande sviluppo dell’autonomizzazione del femminile rende sempre più marginale le forme più arcaiche del ruolo maschile e paterno. I nuovi padri, i mammi, si dedicano si all’accudimento primario (pappe, pannolini, ninna nanna) ma sono spesso assenti nell’accudimento secondario più educativo e fondato sulla trasmissione di valori, sul riconoscimento del figlio, sulla protezione e sul trasferimento delle informazioni ricevute dagli antenati.

Tale compito potrebbe essere assunto anche da figure esterne (un maestro, un mentore, ecc. nelle qualità di paternità adottiva, spirituale, ecc.) ma la sua struttura archetipica è paterna ed è questa configurazione primaria quella che è venuta a mancare. Oggi i figli imparano più dai coetanei che dai padri e solo timidamente appaiono nuovi sistemi per riempire il vuoto del principio paterno.

Un tratto archetipico persistente, nonostante la forte e pervasiva presenza materna, è la forte ricerca del padre naturale da parte dei figli, ormai adulti, nelle separazioni, nei divorzi, nelle adozioni o nei figli di ragazze madri. Tale tensione è sicuramente legata al bisogno di rinforzi all’identità personale resa debole dalla mancanza di riconoscimento psicologico e di possibilità di proiezione del sé verso un modello. Manca abbondantemente però l’archetipo presente nel 5° Comandamento “Onora tuo padre e tua madre”. Il testo dice “onora” e non dice “ama” mentre altrove tale verbo è utilizzato e ciò implica una forma di relazione in grado di dare ai genitori l’onore e cioè far si che i genitori possano essere orgogliosi dei loro figli. L’attaccamento primario e l’affettività è infatti una prerogativa tipica del rapporto genitoriale verso i figli ma l’onore può essere dato solo dai figli verso i genitori.

La realizzazione di tale onore (in cui è implicito il miglioramento della specie, anche evolutivo) è possibile solo se il padre realizza il suo compito. Tale compito va insegnato di nuovo, generazione dopo generazione, altrimenti si dimentica. La dimensione del paterno è un’evoluzione del maschile: molti sono genitori ma solo alcuni diventano padri. C’è dunque un maschio primitivo (prepaterno), un maschio competitivo e un maschio paterno. Questa è l’evoluzione interiore, psicologica e spirituale, che si rinnova ad ogni generazione.

 

Padri presenti

L’onore non è la gloria. La gloria è narcisistica mentre la autentica presenza paterna è invisibile, sia socialmente che, spesso, alle stesse madri.  Infatti la paternità non si può configurare come un ruolo sociale ma solo come atteggiamento interiore, relazionale non egocentrico. Per questo motivo è da collocarsi tra le relazioni umane evolute.

Gli archi temporali in cui più fortemente si realizza la presenza paterna sono le età del bambino dai 3 ai 6 anni (stadio pre-operatorio, in cui il bambino inizia ad usare i simboli e il padre può insegnare ad apprendere in modo deduttivo o induttivo), dai 10 ai 13 anni (stadio operatorio-formale, in cui il bambino inizia ad applicare le sue competenze a situazioni astratte) ed al termine dell’adolescenza.

Si alternano così delle fasi in cui le zone di sviluppo prossimale si focalizzano sul materno o sul paterno, con specificità di stili di apprendimento, di relazione e di contenuti[3].

Il modello paterno trasmette educazione con protezione paterna, guida, e affettività la cui prima caratteristica è la lealtà, ovvero la aperta assenza di manipolazione, imbroglio, condizionamento e ricatto affettivo.

L’attuale necessità di puntualizzare il compito paterno è ben ricordato dalle parole del Vangelo di Luca 1,17 “ricondurre il cuore dei padri verso i figli”.

Questo è l’obiettivo e la testimonianza di Padri Presenti.

 

[1]

[2] da “penus” = luogo dei valori nascosti e dei valori maschili di continuità. Di tale lemma oggi permane solo “pene” e “penetrazione”.

[3] E’ bene specificare che l’aver associato le fasi dello sviluppo con le aree di sviluppo prossimale ed averle alternate è una indicazione di massima che non prevede nessuna esclusività, tantomeno rigidità nell’individuare tali aree. Ciò va detto al fine di evitare pretestuosi equivoci utilizzati quando sono in atto conflitti tra atteggiamento materno e paterno.

29/01/2017